sabato 23 febbraio 2013

Parigi... encore...

Il mio racconto finalista al concorso, indetto dal quotidiano Il Messaggero, "Donne che fanno testo", scelto dalla giuria capitanata da Dacia Maraini. 



La Senna scorre docile sotto gli occhi di Sabine, occhi grigi come il cielo
sopra la sua testa. Occhi che guardano il fiume fluire, come se tutto il mondo vi fosse racchiuso dentro. Uno spiffero le s’infila tra le vertebre della colonna dorsale, strappandole un brivido gelido. Si stringe nel cappotto di lana bouclé, avvolge la sciarpa intorno al collo. Calore: ha bisogno di calore.
Tout va bien, mademoiselle?
Sabine si scuote e ruota il viso verso la voce. Incontra lo sguardo dolcissimo dell’uomo anziano che la scruta preoccupato, tenendo in braccio un cagnolino.
Si accorge di stringere qualcosa tra le mani: è un libro di poesie: 
Arthur Rimbaud… Il divino poeta, il suo poeta.
– Sì… credo di sì. Je vous remercier, monsieur.
L’uomo tentenna un poco, poi si tocca il cappello in segno di saluto prima di an- darsene poco convinto.
Sabine torna a guardare la Senna. è un bel salto giù fino alle acque dorate, eppure basterebbe solo un po’ di coraggio per raggiungere il fondo e la fine. Stringe più forte al petto il libro di poesie, ne recita a memoria, sottovoce, un passo. Solleva una gamba, sta per arrampicarsi sul muro. Le lacrime le offuscano la vista.
Ma l’occhio capta uno svolazzo bianco poggiarsi sul marciapiede. E solo allora, Sabine ricorda. Un indirizzo, un numero; l’appuntamento.
Sorride tra le lacrime. Qualcuno la chiama donna di piacere, altri cocotte. Tanti, la maggior parte, puttana. Perché questo è lei. Una falena che vive di notte desiderando bruciare di luce. Finché di troppa luce non si muore.
Una mano invisibile la trattiene, le cala un velo sui funesti pensieri. Ancora una volta, un poco di vita prima di chiudere per sempre. Con quella vita, la sua. Guarda ancora il foglietto bianco galleggiare sopra la pozzanghera. Improvvisa si china a raccoglierlo: Les Carpentiers, c’è scritto. è uno dei migliori ristoranti di Parigi. Sabine sa che sarà lì ad aspettarla.
Il freddo le gela le lacrime sul viso; le asciuga con il dorso della mano, con un gesto quasi rabbioso. Una riga di mascara sfatto le macchia la pelle.
Si china per afferrare il manico della borsa, il necessaire da lavoro. Sa che dentro ci sono un profumo, un paio di calze velatissime e autoreggenti di ricambio, rossetto e smalto rosso fuoco. Il vento le schiaffeggia i capelli, sollevando fili d’oro paglierino. Un viso da bambina le ripeteva sempre Roger, l’ultimo magnaccia, prima di gonfiarglielo di botte e ridurlo a una maschera grottesca.
Ma Roger non c’è più, soffocato in un cunicolo umido e nero, morto ammazzato da una delle sue ragazze. Sabine immagina il bel volto contratto, la bocca aperta piena di terra. E, per la prima volta dopo tanto tempo, si sente libera. Una libertà che la rende timorosa, insicura e indifesa. Non sa dove andare, non ha più nessuno che la protegga. Nessuno che può prendersi cura di lei. La strada, che tempo fa l’ha accolta, le appare sconosciuta e terribile. Les Carpentiers… quel nome le risuona nella ente come il rintocco di una campana. Le torna il pensiero del foglietto nascosto da una mano audace nella tasca del cappotto, la sera prima, nel Bistrot di Saint Ger- main, e la sorpresa che, come una cappa di velluto, le scivola sul cuore.
Andrà all’appuntamento, decide di colpo. Già immagina il calore delle braccia in- torno alla vita, il fiato eccitato che le sfiora il collo. Niente e nessuno può portarle via quell’ultimo viaggio nella perdizione dei sensi. Il suo addio alla vita.

Il ristorante si trova nel cuore di Saint Germain. Ha dei tavoli fuori, vuoti per il gran freddo. Ha cominciato a nevicare. Sabine si copre la nuca con la sciarpa, rifiuta i fiocchi che cercano di bagnarle i capelli ed entra di filata. Il calore l’aggredisce, sen- te il viso avvampare. Gli occhi s’incrociano con quelli del cameriere all’entrata del- la sala. Lui le fa cenno di seguirlo, come se fosse lì ad aspettarla da tutto il giorno. Il tavolo è accanto a una delle finestre, a metà sala. C’è una sola sedia. Vuota.


Il cameriere indica a Sabine, che sì… è proprio quello; lei esita, poi si fa avanti. Sente lo sguardo del cameriere sulla sua nuca, immagina cosa stia pensando: un appuntamento di piacere, la solita mantenuta. Sabine avanza spavalda. Raggiunge il tavolo, getta un’occhiata: c’è un grande piatto di ceramica rosa, coperto da un rettangolo di velluto blu notte. Si siede, protende una mano. Esita. Allunga le dita, ancora una volta. Solleva un lembo, poi con gesto improvviso scoperchia il piatto. Un’ondata di emozioni la scuote. Due manette lucide d’oro sfolgorano di brillanti sotto i suoi occhi. Un dito le sfiora, segue i contorni delle pietre, si ritrae. Un luccichio accende lo sguardo azzurrino: è sfida, eccitazione. Un biglietto fa capolino da sotto una delle manette. Sabine lo afferra tra il pollice e l’indice, lo solleva, lo porta al naso. Ha un odore dolce, di spezie d’Oriente, e due iniziali marchiate in rosso porpora all’angolo destro: RDB. Apre la busta, estrae il piccolo rettangolo bianco del cartoncino, decorato da arabeschi rossi e legge: c’è un indirizzo, vergato a mano. La calligrafia è priva di grazie, quasi brusca. Rue Mouffetard…
Sabine infila il biglietto nella scollatura, avvolge le preziose manette nel velluto, le mette in borsa e si alza. Gli occhi del cameriere la seguono tra ammirazione ed espressione beffarda. è bella, riflette, troppo bella per non essere il sogno di un uomo, forse più di uno. Lei gli sorride maliziosa, poi si volta ed esce dal ristorante in un ancheggiare sensuale.

Cammina: testa alta e passo veloce; le strade di Parigi sembrano inchinarsi al suo passaggio. Montparnasse riluce di colori e il vento trasporta il profumo dei fiori, dei caffè delle brasserie, degli amori consumati sotto i portici, sul lungosenna. Svolta in rue Mouffetard. Si ferma, il cuore a mille. Prende un lungo respiro; dov’è la donnaccia oggetto delle peggiori fantasie erotiche? Sembra una quindicenne al primo appuntamento. Dev’essere impazzita.
Stringe la borsa poi, in un moto di stizza, allenta la presa e se la porta dietro le spalle in maniera sbarazzina. Spirito, spirito, ragazza!
Il portone è socchiuso. Sabine lo spinge, rivelando una bianca corte interna e una rampa di scale che si perde a spirale verso l’ignoto. Sale. Al primo piano l’esplosione di luce è tanto forte da accecarla e costringerla a fermarsi. Porta una mano a schermarsi gli occhi e lo stupore disarma ogni pensiero razionale.
Un susseguirsi di vetrate si rincorre per tutto il perimetro. Sabine si sente in una reggia di cristallo e non si aspetta i passi improvvisi che la colgono alle spalle. Quando fa per voltarsi è troppo tardi: una mano le ha imprigionato la nuca e gliela tiene ferma, in modo che guardi fisso dinanzi a sé. Sente le dita, quelle dell’al- tra mano, scenderle sulla spalla e cominciare a slacciarle i primi due bottoni del cappotto. La mano s’infila sotto la stoffa, le sfiora la pelle dell’omero coperta dal cachemire del maglione. Sabine sente il respiro farsi ritmico, ma è ancora padrona di sé. Non teme lo sconosciuto, perché di un uomo si tratta; non è aggressivo e i gesti tradiscono gentilezza, quasi rispetto.
– Togliti tutto – le ordina d’un tratto. – Senza voltarti… – aggiunge.
Lei annuisce; slaccia il terzo bottone, poi il quarto e così fino all’ultimo. Esce dal cappotto come una farfalla dal bozzolo; poi è la volta del vestito che le cade ai pie- di in una spirale di colore. Ora ha indosso solo un leggero negligé e il pizzo delle calze autoreggenti. Sta tremando.
– Brava – le sussurra la voce. Il tono è diventato basso, caldo. Sabine avverte le dita sfiorarle la fronte, scendere con lentezza esasperante fino alla curva del naso, lambire le narici; sanno di tabacco e limone. Il ritmo del respiro cambia.
L’indice si ferma sul labbro superiore, traccia una linea, le preme sulle labbra: chiede di entrare. Sabine le socchiude, sente sulla lingua il sapore salato della pelle. Le torna in mente il fluire docile della Senna, il riflesso dorato delle acque. Ecco: si sente così, in balia della corrente, avvolta in un pulviscolo d’oro: la mente annebbiata. La lingua s’intreccia tra le dita dell’uomo, ne coglie il sapore, succhia piano, poi con avidità. Improvviso lui ritrae la mano. Subito dopo, un soffice tocco le sfiora gli occhi, e un mondo di tenebra l’avvolge: la sta bendando. La stoffa stringe serica contro le palpebre e con un nodo stretto si serra alla nuca.

Lui l’afferra per un braccio e la trascina con sé. Sabine lo segue in silenzio, senza fare domande. Non c’è spazio, né tempo per i dubbi, i tentennamenti, le incertezze.
Il bagliore si smorza, non è più nella sala di cristallo. Attraverso la benda, luci aranciate danzano davanti ai suoi occhi. Effluvi speziati l’assalgono in un turbine di sensi. Dove si trova? Non sa e non vuole saperlo. A cosa servirebbe? è una sua scelta essere lì, e rimanere sul ciglio prima di cadere nel baratro.
Viene spinta, cade sul morbido: è un materasso. Lo sente da come molleggia sotto il peso del proprio corpo. Si sente afferrare per le braccia, subito dopo i polsi sono imprigionati in una morsa gelida: le manette si chiudono con un algido clic.
Le ha prese dalla borsa è il primo pensiero che sfreccia nella mente di Sabine: ora sono completamente sua.
Il negligé scivola in alto verso il seno, denudandole le gambe. Un brivido le serpeggia sulla pelle. Sabine è vittima, e per quegli attimi che lui vorrà regalarle sarà redenta.
Le carezze che bruciano la carne le strappano gemiti di piacere. Non c’è nulla di brutale né volgare in esse, solo puro piacere che cala una cortina di seta opalescente sui meandri della mente. E non c’è più la strada né la notte fredda in attesa di un cliente, solo un uomo appassionato, lì solo per lei.
– Vivi, Sabine – mormora lui, rivelando di conoscerne il nome. – … e rinasci per me. –  La ruvidezza della lingua sulla pelle tenera del ventre istilla gocce di fuoco. Sabine riconosce quella voce roca, dalle troppo sigarette fumate, la pronuncia del sud, dalla erre arrotondata. Non le sembra reale, eppure il calore del corpo, il toc- co, la bocca di lui appaiono molto più reali del reale.
Sabine si rifiuta di pensare, di permettere al cervello di soffocare i tremiti del cuore, dell’anima. Tende i muscoli, s’inarca e implora di non smettere. Un braccio vigoroso si aggancia alla vita sottile e due labbra decise si uniscono alle sue.
– Ma petite... – un soffio simile a un sospiro, la mano che le fa volare via la benda dagli occhi e Sabine incrocia uno sguardo nero come il peccato. Compie un balzo indietro sul letto, il respiro le viene a mancare. Getta una repentina occhiata intorno a sé: lenzuola di seta le si spargono intorno come una corolla.
Lui… lui è fermo a un palmo dal viso ed è proprio come lo ricorda… persino lo sfregio sulla guancia destra è lo stesso. Ne ricorda ogni tratto frastagliato di pelle.
– Roger… non… non posso…
– Hai pensato che fossi morto… come tutti. Sono fuggito, Sabine, mi sono nascosto in buchi fetidi e bui, aspettando la rinascita, aspettando di ritrovarti. E quando sono stato sicuro di poter tornare a Parigi, la prima persona che ho cercato sei stata tu. Lei lo scruta incredula, il cuore stretto a un pugno di sangue.
Roger le accarezza il viso, le libera i polsi dalle manette… Sabine chiude gli occhi, mentre le emozioni le implodono dentro. 
Roger è la sua ossessione; la sua follia. 
Roger è il suo protettore… e la sua prigione.

2 commenti:

Hunter. H. Gilmour ha detto...

Un racconto meraviglioso, dolce e sensuale...
Ho davvero visto le ambientazioni, lo stile è fresco e descrittivo al tempo stesso.

Unknown ha detto...

Grazie mille :-)