lunedì 6 febbraio 2012

Black's Christmas


Black’s Christmas
di Elisabetta Bricca

C’è una tettoia sgangherata su cui la neve si è posata formando un piccolo candido monte. Soffici lingue si allungano, si staccano e cadono a terra. È un cadenzare ritmato, come il battere delle lancette di un orologio. Una delle lingue cade giù,
si fa pallottola luminescente, e picchia su una piccola testa nera come la pece.
Un occhio giallo strabuzza verso il cielo, l’altro rimane serrato poiché cieco. L’orecchio si drizza, quello floscio rimane ripiegato sul capino. Un ragazzo glielo ha spezzato con una sassata.
Ecco, lui è Black. Scheletrico, smangiucchiato, nero nero. Ha ben presto imparato la legge della sopravvivenza e quella tettoia è la sua casa.
Black è un randagio, un gattaccio di strada.
La coda spelacchiata, simile a un punto interrogativo fatto di fil di ferro, si tende. Le zampe si allungano. Black si stiracchia. Ancora neve
Una bella scocciatura, riflette pigramente.
Dovrà presto trovare un altro riparo, una residenza invernale che lo difenda dal vento e dal gelo.
Il suo stomaco di gatto denutrito brontola. Un salto al mercato è quello che ci vuole. Con un po’ di fortuna potrà rubare qualche lisca e, se gli va di lusso, due o tre sardine.
- Ehi, Black, hai un aspetto terribile questa mattina -. Il miagolio effeminato è quello di un siamese che si rimira in una scheggia di specchio. Si chiama Lula e tutti sanno nel quartiere che se la fa con il viziato persiano di un’altolocata signora.
Black soffia, annoiato più che infastidito. Sembra che la feccia dei rookeries si sia annidata tutta lì, sotto quella tettoia che, fino all’autunno, era stata di sua esclusiva proprietà. Bodmil, quel tigrato pettegolo, aveva dato fiato alle fauci, facendo in modo che i reietti felini si rifugiassero in quell’angusto spazio, riempiendolo di umori fetidi e pulci.
- Fottiti, Lula, - miagola di rimando Black, stavolta davvero innervosito.

Le strade della città sono un reticolato di vene bianche. Alcuni grossi numeri baluginano di luce rossa tra le due estremità di un vicolo. 1879, c’è scritto.
Black è orgoglioso di sé. Essere un randagio non lo ha trasformato in uno zotico.
Sa leggere, lui, e sa anche fare di conto.
Solo un profumo intenso, riesce a far sparire l’incanto delle luci rosse. Lo avvolge, lo ammalia. Frittelle e frattaglie, da qualche parte, in fondo al vicolo.
Black cerca di correre, ma è troppo infreddolito. Le sue zampe lasciano orme sulla neve fresca. Intorno è un turbinio di colori, bianco candido, e vociare di bimbi. Ha ricominciato a nevicare. Le note di una cornamusa si levano nell’aria.

Il chiosco è un tempio di sensi. Il randagio non nota nemmeno lo spesso strato di grasso che sporca il bancone e macchia il grembiule del venditore. Il suo arguto cervello di gatto è ormai preda dell’istinto. Ha fame.
S’infila veloce tra le gambe dei clienti, assaporando già il gusto della carne sotto i denti.
Spicca un balzo, ma non si accorge di essere stato anticipato. L’altro gatto piomba fulmineo sul bancone, con una zampata infilza la carne e la strappa dallo spiedo in mano al venditore. Black cerca di frenare in aria, poi con una sgusciata di bacino si ritrova ai piedi dell’uomo.
- Gattaccio ladro! -. Il calcio lo centra in piena pancia. Viene sbalzato di nuovo in strada, ma ha il tempo di scorgere il rivale (il ladro del ladro, proprio lui) fermo all’imbocco del vicolo mentre divora la preda rubata.
Black non molla e fa appena in tempo a spostarsi prima che lo spiedo gli si conficchi tra le costole. Il venditore, sempre lui, sembra non voler demordere.
Ecco che si trova braccato, inseguito. Infilzato.
Come mai, allora, riesce ancora a respirare? Sì, è ancora tutto intero. La fantasia, seppur quella di un gatto, può provocare, a volte, brutti scherzi.
Dove si trova ora? Cos’è quella canzoncina che gli vibra nel cervello?
Scuote la testa, si guarda intorno: Il cielo è una spruzzata di latte. Alcuni bambini, addobbati di rosso e bianco con strani cappelli in testa, riempiono la strada di risate e canti. Black non finirà mai di stupirsi della leggerezza umana. Intanto continua a nevicare e fa freddo. Sta tremando.
È in quel momento che la scorge: un esserino infagottato di stracci, con un cesto
in mano. Stringe nel palmo una sfera. Black aguzza la vista: ha sentito gli umani chiamarla arancia. Segue con lo sguardo la bambina, ne osserva lo scialle bucato coprire il capo, le scarpe troppo grandi, le dita rigide che sbucano dai mezzi guanti.
Ha freddo anche lei.
Anche lei sta tremando.
I loro sguardi s’incontrano al di sopra del baccano, delle canzoni allegre e urlate al cielo, dei fiocchi che continuano a cadere sulle loro vite (quella di Black e della venditrice di arance).
Il nostro randagio continua a guardarla, mentre lei tira fuori dalla tasca un pezzo di sardina secca e con gentilezza gliela porge. Zampetta dopo zampetta, muovendosi con cautela, lui si avvicina. Adocchia, annusa. Non si fida, ma lei ha occhi così dolci da ricordargli la sua mamma gatta.
Ah certo, pensavate che non se la ricordasse?
Black ricorda tutto, anche di quando era solo una matassina di pelo arruffata.
Una matassina di pelo cacciata via, abbandonata, lasciata sola. Ecco, ora ricorda benissimo quel tipo di sensazione, come quella di un dolore lasciato da una profonda ferita, come se tutta l’inettitudine del mondo si fosse concentrata in pochi attimi.
È questo che prova guardando la venditrice di arance: c’è uno spazio tra il suo mesto sorriso e il miagolio di Black; un intermezzo che si chiama solitudine e che può essere riempito, a volte, da un pezzetto di sardina.
- Buon Natale, micetto -. La bambina gli regala un grattino sulla testa e si accuccia a terra, stringendosi nello scialle. Vincendo un po’ la titubanza e leccandosi ancora i baffi, Black le si acciambella grato in grembo. Così si addormentano, un po’ per stanchezza un po’ per inerzia. Il cielo stende sulla città il suo lenzuolo scuro punteggiato di stelle.

Il vento porta un suono. È quello di un campanellino. Di due campanellini.
Un grande vecchio panciuto dalla lunga barba e dalla risata calorosa stende una coperta su di loro. Black è convinto di star sognando e il suo sogno è proprio bello. La coperta è così morbida e calda che, quasi quasi, spera di non svegliarsi più.
Eppure si sveglia ed è di nuovo giorno. La coperta non se l’è immaginata.
Ci è proprio nascosto dentro, al riparo, accanto alla bimba. Una scia dorata e luminescente traccia un linea sul bordo e finisce in un ricciolo a formare una scritta: Buon Natale.
Black non ne conosce il significato, ma è tutto così incredibile che vuole godersi ogni momento. Si accoccola di nuovo accanto alla piccola venditrice, sistemandosi al calduccio, ronfando.
Non si accorge che una stella diurna brilla in cielo e che un vecchio dalla lunga barba, nascosto tra le nuvole, se la ride beatamente.

© 2011 by Elisabetta Bricca
Published by agreement with TZLA. Trentin e Zantedeschi Literary Agency

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